In un’intervista qualche anno fa aveva detto: “Il calcio è un business che vende emozioni e ricordi”.
Da lui emozioni ne abbiamo comprate a pacchi. Quelle in campo e quelle fuori. Quelle gioiose, quelle cariche di rabbia, felicità, tristezza, malinconia, commozione, delusione, simpatia. Da lui abbiamo comprato ricordi.

Due su tutti. Quella coppa dei campioni alzata urlando al cielo nel 1996 e quell’abbraccio con il Mancio dopo la finale vinta agli europei del 2021. Nemmeno a farlo a posta in entrambi i casi c’erano di mezzo i rigori, la metafora di una vita giocata da lui senza paura, quella che serve per tirarli, i rigori, ma anche senza la certezza di sapere come andrà a finire ad ogni tiro.
Anche se detto oggi, nel giorno in cui è mancato, sembra un’affermazione azzardata: la storia di Gianluca Vialli, vista nel suo complesso, è la storia di un vincente. Ma chi ha fatto sport sa più di ogni altro che per diventare tale occorre imparare a reggere le botte.
Lui, attaccante di mestiere, di botte ne prendeva come nessuno. Mazzate a livello fisico, quelle che arrivavano dai difensori dell’epoca pre-VAR, picchiatori al limite del penale. Batoste a livello mentale, quelle del mondiale deludente di Italia ’90, della finale di coppa dei campioni persa con la Samp, dell’esclusione dal giro della nazionale di Sacchi in anni in cui era dominante. Ma nulla, nulla, l’ha mai davvero fermato. Anzi. Vialli ha sempre affrontato tutto con un sorriso di fondo, un sorriso pieno di stile, beffardo ma mai strafottente, un sorriso capace di infondere fiducia negli altri. Un sorriso che da solo gli faceva meritare la fascia da capitano come alla Juve oppure il ruolo di allenatore come al Chelsea o di capo delegazione come con la Nazionale.
Quel sorriso, unito alla grinta da cui non si poteva non farsi contagiare, anche questa volta, aveva fatto sperare tutti che la sua corsa non fosse finita.
Quando qualcuno viene a mancare un po’ si è tristi per lui, per i suoi familiari o per gli amici più stretti. Soprattutto però si è tristi per noi stessi, in modo egoistico. Si è affranti per quello che quella persona ci ha dato e che non ci potrà più dare.
Con la scomparsa di Gianluca Vialli i nostri ricordi diventano foto attaccate al muro, più visibili di quando si confondevano con altri nella mente ma congelate nella fissità di qualcosa che così, in quell’esatto modo, non potrà più tornare.
Da ragazzo avevo un suo poster appeso in camera. Quella era un’immagine tutt’altro che fissa e congelata. Era fiducia, tifo, ispirazione. Quella era una promessa da rinnovare ad ogni partita. Quella di correre insieme a qualcuno, anche solo nella mente. È la promessa del calcio. È la promessa che ti fanno solo i campioni.
Non credo che dopo la morte ci sia davvero qualcosa, ma se mi sbagliassi, sarebbe bello che si finisca in un posto dove poter vedere lui e Pelè fare a gara di rovesciate. Sarebbe fantastico essere lì, sugli spalti, e urlare: “Dai, Gianluca, fagliela vedere tu, in fondo è solo Pelè”. Sono certo che sorriderebbe, come faceva lui. Con quella faccia da furbo, da venditore nato, quello da cui hai comprato le cose più importanti del mondo: emozioni e ricordi.